IL DIVIETO DI RETROATTIVITÀ (INGIUSTIFICATA) DELLA LEGGE IN MATERIA SOCIALE
1. Premessa.
La retroattività della legge è contraria a criteri intuitivamente fondanti l’ordine giuridico come insieme bene ordinato di norme che si sviluppano secondo una logica prevedibile e trasparente e che è in grado di consentire una (relativa) certezza giuridica, sulla quale le persone possono fare affidamento. Il divieto di retroattività si è, nella tradizione costituzionale europea (ma non solo), consolidato e si è imposto come un criterio rigido nell’ambito penale correlato come è ad un altro principio fondante la modernità giuridica e cioè la punibilità solo di atti che siano stati preventivamente definiti dalla legge (nullum crimen sine praevia lege poenale). Pertanto nelle odierne costituzioni figura in genere il divieto di retroattività della legge penale (v. ad esempio l’art. 25 Cost.); così come figura nella Carta dei diritti UE (all’art. 49) e nella Cedu (all’art. 7), con chiari tratti di inderogabilità. Nello sviluppo delle società contemporanee tuttavia la protezione statale si è progressivamente allargata a moltissimi altri settori non disciplinati dal diritto penale; in particolare con il welfare state, attraverso molteplici prestazioni, l’individuo viene salvaguardato anche sotto l’aspetto della sua “ sicurezza sociale”. L’espansione dei compiti dello Stato oltre i confini ottocenteschi ha, quindi, inevitabilmente condotto ad una espansione del principio che vieta norme retroattive anche nel diritto civile e, segnatamente, nel diritto sociale: dal campo lavoristico sino a quello assistenziale, nel quale si erogano prestazioni con carattere di durata (retribuzioni, pensioni, prestazioni assistenziali). In questo terreno, però, il criterio non opera con quell’assolutezza che vige nel settore penale, essendo evidente che possono presentarsi situazioni straordinarie in cui la revisione dei trattamenti diventa inevitabile anche per il passato. Si tratta infatti di materia nella quale la disciplina legislativa è certamente meno stabile, più dinamica e contingente, per l’ovvia dipendenza dalla situazione economica ed istituzionale del paese. Questa tendenza a sottoporre a limiti razionali l’utilizzo della legge retroattiva in campo sociale si è certamente sviluppata anche ad opera di molte Corti costituzionali nazionali e quindi costituisce da tempo una tendenza dell’odierno costituzionalismo.
2. L’orientamento della Corte europea dei diritti umani.
Nonostante la Convenzione europea espressamente vieti solo la retroattività in materia penale, già nel 1993 con la sentenza Dombo Beheer c. Paesi Bassi e poi, più univocamente, nel 1994 con la sentenza Raffinerie Greche Stran e Statis Andreatis c. Grecia (il vero leading case), il divieto in campo civile è stato agganciato al diritto ad un giusto processo (art. 6) e successivamente al Protocollo n.1, sotto il profilo dell’eventuale interferenza ingiustificata nel godimento di diritti di credito “a natura patrimoniale”, nel cui alveo sono stati ricondotti, da tempo, molti diritti socio-economici. Una legge retroattiva, in ipotesi, potrebbe violare l’art.6 Cedu ledendo i diritti procedurali del cittadino, ma non anche il Protocollo n. 1, nel caso in cui tale legge avesse una giustificazione adeguata, connessa ad interessi di natura pubblicistica ed il sacrificio imposto fosse proporzionato. Nel caso di talune condanne dell’Italia in effetti si è verificata proprio questa situazione. Per ricostruire l’orientamento della Corte europea dei diritti umani valgono le parole della Corte costituzionale (sentenza n. 170/2013): “la Corte di Strasburgo, infatti, ha ripetutamente affermato, con specifico riguardo a leggi retroattive del nostro ordinamento, che in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una regolamentazione innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’art. 6 della CEDU, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (pronunce 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi contro Italia; Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). La Corte di Strasburgo ha altresì rimarcato che le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere intese in senso restrittivo (pronuncia 14 febbraio 2012, Arras contro Italia) e che il solo interesse finanziario dello Stato non consente di giustificare l’intervento retroattivo (pronunce 25 novembre 2010, Lilly France contro Francia; 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais contro Francia; 16 gennaio 2007, Chiesi S.A. contro Francia; 9 gennaio 2007, Arnolin contro Francia; 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia). Viceversa, lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell’accertamento, l’imprevedibilità dell’intervento legislativo e la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono tutti elementi considerati dalla Corte europea per verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell’art. 6 della CEDU: sentenze 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas contro Francia; 26 ottobre 1997, Papageorgiou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society contro Regno Unito. Le sentenze da ultimo citate, pur non essendo direttamente rivolte all’Italia, contengono affermazioni generali, che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico e che questa Corte considera vincolanti anche per l’ordinamento italiano.” Si tratta di una ricostruzione impeccabile: le recenti sentenze di violazione da parte dell’Italia, in realtà, non aggiungono argomenti significativi a quanto già affermato in precedenza, limitandosi la Corte europea a sostenere che le ragioni addotte dal Governo non erano convincenti (compelling enough nel caso Maggio di cui parleremo) e a ribadire i precedenti. Riassumendo, la Corte europea dei diritti umani guarda alla legge retroattiva civile come una extrema ratio davvero inevitabile se incide su processi in corso, alterando la parità delle armi tra le parti e lasciando una di esse senza tutela. Questo pregiudizio è poi evidente se ad essere condizionati sono giudizi in cui è parte lo Stato (anche se nella sentenza Arras c. Italia il principio è stato affermato sebbene le parti fossero tutte private). Il pregiudizio è chiaro se esiste ormai una giurisprudenza consolidata, per modificare la quale interviene la legge retroattiva. E’ lo Stato che deve dimostrare, allegando ragioni di carattere eccezionale, di non avere utilizzato la funzione legislativa proprio per alterare il corso della giustizia. Anche l’ipotesi, in astratto ammessa dalla Corte europea, della necessità di ripristinare l’intento originario del legislatore tradito da una imperfezione tecnica della legge, finisce con il giovare poco alla legittimazione delle prassi in atto da decenni in Italia, perché questo intento deve essere univoco e risultante senza dubbi sin dall’inizio. Non basta quindi che una legge retroattiva intervenga conferendo autorità a uno dei tanti significati ascrivibili alla norma in questione, selezionando, in genere, quella che premia gli interessi processuali dello “Stato-parte”. In molte decisioni si è sottolineato come interventi legislativi di interpretazione “autentica”, difesi dal Governo italiano nel nome della certezza del diritto, siano stati adottati dopo anni dal provvedimento originario. Sull’inadeguatezza di ragioni puramente economiche la Corte europea è stata, poi, particolarmente recisa proprio nelle condanne contro l’Italia. Ancora appare evidente come non sia sufficiente allegare genericamente principi, che costituiscono in genere valori costituzionali interni -come la certezza del diritto, la solidarietà, il rispetto dell’equilibrio di bilancio, l’eguaglianza e la parità di trattamento e così via- in quanto si deve dimostrare in concreto perché, per salvaguardare tali interessi e principi costituzionali, si debba necessariamente alterare il corso della giustizia. Molto più permissiva sembra la Corte europea sia quando si tratta di disposizioni retroattive che non abbiano le conseguenze prima viste sui processi in corso e incidano su diritti socio-economici, anche legati a rapporti di durata, come i trattamenti pensionistici.
Solo per completezza espositiva si segnala che la Corte di giustizia UE è assolutamente rigorosa nel difendere il principio di divieto di retroattività anche della legge civile in relazione al diritto dell’Unione, ritenendo preminenti valori come quelli della certezza del diritto e dell’affidamento del cittadino rispetto alle esigenze dello Stato di disciplinare nuovamente una certa materia.
3. Le condanne dell’Italia.
Sotto accusa, negli ultimi anni, è stata la prassi italiana ormai sistematica di procedere ad un riordino della spesa pubblica attraverso norme ad hoc di c.d. interpretazione autentica, in genere licenziate nella legge finanziaria (ora di stabilità) su istanza dei vari enti pubblici o dei Dicasteri interessati, per contrastare indirizzi giurisprudenziali sfavorevoli. Con tali norme il legislatore impone un contenuto della legge vigente difforme da quello assestatosi nella giurisprudenza e così determina l’esito delle cause in senso favorevole allo Stato o agli enti pubblici parte nel procedimento pendente. Nella sentenza Agrati e altri c. Italia del 7 giugno 2011 la Corte europea ha esaminato una legge di interpretazione autentica con efficacia retroattiva emanata in pendenza di procedimenti giudiziari. Si tratta della vicenda del personale Ata (circa 200.000 persone che svolgono in sostanza mansioni di bidello e di personale tecnico nelle scuole), transitati da altre amministrazioni (in genere locali) in quella della scuola, ai quali sono stati negati i diritti di anzianità nella loro interezza. Rispetto alle iniziali controversie emergeva una giurisprudenza (anche della Corte di cassazione) favorevole ai lavoratori; successivamente veniva emanata una legge di interpretazione autentica che “azzerava” l’orientamento giudiziario formatosi sino ad allora. La Corte europea ha invece ribadito che il meccanismo della legge di interpretazione autentica non può essere utilizzato allo scopo di incidere su controversie in atto per modificarne l’esito e conseguentemente è stata riscontrata la violazione del diritto ad un processo equo (art.6 Conv.) e del diritto al pacifico godimento dei beni (art.1 del Protocollo n. 1). Successivamente interveniva una nuova sentenza nel caso Maggio c. Italia del 31 maggio 2001. Si trattava della richiesta da parte di alcuni lavoratori migranti in Svizzera di trasferire in Italia i contributi versati in quel paese secondo una normativa generale. La pretesa era contrastata dall’INPS in quanto in Svizzera su tali contributi erano stati pagati oneri fiscali molto minori di quelli a carico dei lavoratori in Italia. Dopo il consolidamento di una giurisprudenza, anche da parte della Corte di cassazione, favorevole ai lavoratori, era intervenuta una legge di “interpretazione autentica” favorevole alla tesi dell’INPS. La Corte europea ha ritenuto violato l’art. 6 Conv., mentre ha giudicato assistito da ragioni di pubblico interesse il riordino della legislazione pertinente e ha quindi esclusa la violazione dell’art.1 del Protocollo n. 1. Analoga è la vicenda conclusa con la sentenza Arras c. Italia del 14 febbraio 2014 (controversia di tipo pensionistico relativa ai lavoratori del Banco di Napoli). Vanno anche menzionate le sentenze Guadagno c. Italia del 1° luglio 2014 e M.C. e altri c. Italia del 3 settembre 2013.
4. Il dissenso della Corte costituzionale e le sue conseguenze.
Anche la Corte costituzionale aveva da tempo affermato che esistono limiti al potere legislativo di intervenire con simili provvedimenti (se non altro per rispetto del principio di razionalità), ma questo indirizzo non era mai stato attuato con il dovuto rigore. Sotto la spinta della giurisprudenza europea, invece, la Corte costituzionale è intervenuta più volte negli ultimissimi anni a cancellare dall’ordinamento norme che avevano violato i principi di tale giurisprudenza (e quindi indirettamente anche la Costituzione ai sensi dell’art. 117). Analogamente, in varie occasioni la Corte di cassazione si è sforzata di dare delle leggi retroattive una interpretazione rispettosa della Convenzione europea dei diritti umani, così come interpretata dalla Corte europea. Ma con la sentenza n. 264/2012 la Corte costituzionale si è posta in conflitto con la Convenzione nella interpretazione datane dalla Corte europea. Il caso esaminato era identico a quello affrontato dalla Corte europea nella sentenza Maggio c. Italia. La Cassazione sezione lavoro, tenuto conto della violazione già dichiarata dalla Corte europea aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma retroattiva per violazione dell’art. 117 Cost. La Corte costituzionale tuttavia ha ritenuto di non dare ingresso alla giurisprudenza della Corte europea, senza considerare che nel caso si trattava di una alterazione dei principi dell’equo processo relativamente ai soli lavoratori per i quali le cause erano ancora pendenti e ritenendo che la legge retroattiva fosse giustificata da altri (prevalenti) principi e valori costituzionali (uguaglianza, solidarietà, vincoli di bilancio). Dopo la sentenza 264/2012 è di nuovo intervenuta la Corte europea con la sentenza Stefanetti c. Italia del 15 aprile 2014, che ha di molto aggravato la situazione in quanto in questo caso è stata accertata anche la violazione del Protocollo n. 1, poiché sono stati giudicati eccessivi ed ingiustificati i sacrifici subiti dai pensionati che erano parte delle cause civili in corso. La Corte dei diritti dell’uomo ha ribadito che “la Corte ha già accettato che il fine di ristabilire un equilibrio nel sistema pensionistico, benché di interesse generale, non era sufficientemente impellente da prevalere sui pericoli inerenti all’utilizzo di una normativa retroattiva che incideva su una controversia pendente. Invero, anche ammettendo che lo Stato stesse tentando di perequare una situazione che originariamente non aveva inteso creare, avrebbe potuto farlo tranquillamente senza ricorrere all’applicazione retroattiva della legge. Inoltre, anche il fatto che lo Stato abbia aspettato ventiquattro anni prima di effettuare una simile perequazione, nonostante il fatto che numerosi pensionati che avevano lavorato in Svizzera stessero ripetutamente vincendo in giudizio dinanzi ai tribunali nazionali, crea dei dubbi riguardo al fatto che quella fosse realmente l’intenzione del legislatore“. Insomma, con la sentenza n.264/2012 della Corte costituzionale si è creato un grave contrasto che espone l’Italia a probabili ulteriori sentenze di violazione della Convenzione europea.