Il rilancio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ad opera della Corte di giustizia: ragioni e prospettive
1. L’applicabilità della Carta: l’orientamento della Corte di giustizia. Sembra innegabile che negli ultimi due anni la Carta dei diritti abbia conosciuto un deciso rilancio da parte della Corte di giustizia, a tal punto da generare qualche reazione da parte di alcune Corti costituzionali che, da un lato, hanno evidenziato il rischio di perdere il diritto di esprimere l’ultima parola su questioni che coinvolgono la violazione sia della Carta dei diritti sia delle Costituzioni interne, dall’altro, hanno mostrato di voler loro stesse applicare la prima e di voler concorrere al processo di elaborazione del contenuto dei diritti che protegge. Questo momento di tensione testimonia, però, proprio dell’importanza che assume il Testo di Nizza nel dialogo giurisdizionale europeo e, sino ad oggi, sembra poter essere indirizzata in modo costruttivo, non avendo condotto a nessuna aperta e grave rottura.
Ma andiamo per ordine. A Nizza, nel Dicembre del 2000 fu approvata la Carta dei diritti, frutto dell’elaborazione della prima Convenzione come si trattasse di un testo obbligatorio, ma lasciando impregiudicato il suo effettivo valore giuridico che, invece, fu precisato molto dopo, in conseguenza della bocciatura referendaria in Francia ed Olanda del Progetto di Costituzione europea di cui la Carta costituiva l’intera terza parte. Il Trattato di Lisbona, approvato nel 2007 ma entrato in vigore alla fine del 2009, ha finalmente risolto la questione dell’efficacia della Carta con la sintetica formula (art. 6 TUE) per cui ha lo stesso valore giuridico dei Trattati; nel complesso quindi i diritti della Carta hanno un rango primario nell’ordinamento dell’Unione e offrono parametri di costituzionalità non solo per le direttive ma anche per le stesse norme dei Trattati. La storia della Carta è quindi complessa; per un lungo periodo le sue disposizioni hanno trovato una ricezione giudiziale come strumenti di interpretazione (come ricognizione dei principi generali del diritto UE desumibili dalle altre norme primarie e secondarie), di rafforzamento della decisione più che di vere fonti del diritto a carattere primario, secondo la formula molto utilizzata, non solo dai giudici comuni, ma dalla stessa Corte di giustizia e di alcune Corti costituzionali del tipo “una diversa soluzione sarebbe in contrasto con l’art. x della Carta”. Una forma attenuata della cosiddetta “interpretazione conforme” cioè dell’obbligo del giudice interno a dare alla disposizione di cui si discute quel significato che la rende conforme al diritto sovranazionale. Per fare un esempio possiamo richiamare la sentenza della nostra Corte n. 135 del 2002 secondo la quale la Carta ha “valore espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei”.
Il contesto cambia però con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona alla fine del 2009; ora la Carta diventa obbligatoria sempre per il diritto dell’Unione e per le controversie che riguardano il diritto interno solo quando questo sia applicazione del primo, come recita l’art. 51 della Carta. La Corte di giustizia si trova quindi un duplice, molto delicato compito: da un lato, precisare che cosa voglia dire “applicare il diritto europeo” e, dall’altro, specificare gli effetti che possono derivare dall’applicabilità della Carta (questioni nuove perché prima del 1° dicembre 2009, come detto, la Carta valeva solo come ausilio ermeneutico): due aspetti fondanti il sistema di protezione offerto dalla Carta come vera e propria fonte del diritto. Circa il primo aspetto, si sono da subito fronteggiate due ipotesi: la prima interpreta (in modo strettamente letterale) «applicazione» come attuazione diretta e necessitata del diritto europeo, come nell’ipotesi classica di una legge che recepisce una direttiva. La seconda ipotesi (difesa sin dal 2010 dalla Commissione europea) recepisce invece un concetto più generico ed ampio di «attuazione» e valuta sia sufficiente che la fattispecie esaminata cada per qualche suo aspetto nel «cono d’ombra» del diritto dell’Unione, anche indirettamente (nel linguaggio della Commissione: che sussista un link tra il caso ed il diritto sovranazionale). Ora questa oscillazione tra le due interpretazioni ha una sua traccia nella stessa architettura della Carta; mentre l’art. 51 sembra stabilire un vincolo diretto e necessario tra il diritto dell’Unione e la disciplina interna, le Spiegazioni alla Carta (che secondo l’art. 6 TUE devono essere tenute in considerazione dagli interpreti) stabiliscono che gli stati devono rispettare i diritti della Carta allorché agiscono nell’«ambito di applicazione del diritto dell’Unione» e richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia in ordine agli obblighi in via generale degli stati di rispetto del diritto sovranazionale che chiamano in causa ogni normativa interna che possa interferire con il primo anche in via indiretta o eventuale. Quindi, se da un lato è molto chiaro che la Carta non è un mezzo per estendere la competenza dell’Unione, dall’altro lato però la Carta è ancorata nelle più ampie regole sul primato del diritto dell’Unione (per giunta primario).Questa tesi ha trovato una prima chiara conferma con la sentenza Fransson (C-617/2010, Grande sezione del 26.10.2013) in cui si discuteva di una normativa svedese sull’IVA priva di riferimenti al diritto dell’Unione, ma che operava in un campo ove questo è determinante, posto che si tratta di una imposta comunitaria. Dopo che un’altra sentenza, sempre di Grande sezione, nel caso Siragusa del 6 marzo 2014, C-206/2013, aveva offerto una soluzione più rigorosa affermando che il giudice deve accertare « se la normativa nazionale in questione abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo carattere e se essa persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa», si è tornati alla prima opzione con la più recente sentenza Berlios del 16 maggio 2017 C-682/2017, nella quale la Corte sembra aver risolto in favore della Fransson la disputa in un caso di obbligo di prestare informazioni fiscali tra stati. In sostanza nel caso esaminato la normativa nazionale era priva di ogni raccordo con quella dell’Unione, poiché stabiliva solo una sanzione per il soggetto che non collabora nelle informazioni fiscali richieste, non prevista dalla direttiva, ma la Corte di giustizia ha osservato che «la circostanza che la direttiva 2011/16 non preveda espressamente l’applicazione di misure sanzionatorie non osta a che queste ultime siano considerate rientranti nell’attuazione di tale direttiva e, di riflesso, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. In effetti, la nozione di «misure previste [per ottenere le informazioni richieste]», nell’accezione dell’articolo 18 di tale direttiva, e quella di «misure necessarie per (…) assicurare il buon funzionamento del sistema di cooperazione amministrativa», nell’accezione dell’articolo 22, paragrafo 1, della medesima direttiva, sono atte ad includere siffatte misure. In tale contesto, la circostanza che la disposizione nazionale, che funge da base di una misura sanzionatoria come quella inflitta alla Berlioz, figuri in una legge che non è stata adottata per trasporre la direttiva 2011/16 è irrilevante, dal momento che l’applicazione di tale disposizione nazionale persegue la finalità di garantire quella della citata direttiva», con la conseguenza dell’applicabilità della Carta (l’articolo in gioco è l’art. 50 sul ne bis in idem). Si tratta di una giurisprudenza che si è assestata dopo 17 anni dalla iniziale approvazione di questa a Nizza e ben otto anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che certamente assegna al Bill of rights dell’Unione un importante campo applicativo anche nella sfera interna: su questa base, i giudici nazionali sono sollecitati ad operare una interpretazione conforme delle norme nazionali e, se questa è impossibile, (sempre che ne ricorrano i presupposti di cui parleremo dopo) a disapplicare quest’ultime sotto la guida della Corte di giustizia (se del caso con un rinvio pregiudiziale, ove si siano dubbi). Certamente questo approdo giurisprudenziale costituisce una prima base per il rilancio della Carta UE.
2.L’applicabilità diretta della Carta. Il secondo problema che la Corte ha affrontato in particolare negli ultimi tre anni è quello degli effetti che possono essere ricondotti all’applicabilità della Carta, posto che la sibillina formula dell’art. 6 TUE non chiarisce il punto se non equiparando questa alle norme dei Trattati le quali, però, hanno efficacia diversa: solo alcune (ad esempio quelle sulla libera circolazione dei capitali) portano a conseguenze così drastiche come quelle della disapplicazione di una norma interna, così come le direttive non sono immediatamente applicabili ai rapporti tra privati, salvo in alcune ipotesi in materia antidiscriminatoria. Una cosa infatti è il principio del primato e dell’efficacia diretta del diritto dell’Unione (per cui questo comunque ha efficacia nel diritto interno, ad esempio obbligando lo stato inadempiente a risarcire il danno o i giudici nazionali a seguire la cosiddetta interpretazione conforme), altra cosa che la norma sovranazionale da sola possa essere applicata sospendendo quella interna. La Corte di giustizia negli ultimissimi anni (2107-2019) ha dovuto chiarire questo aspetto prima trascurato stante lo stile “eclettico” sul piano argomentativo adottato dalla Corte del Lussemburgo, che ha preferito rinviare alla Carta sul piano interpretativo piuttosto che individuarla come fonte vera e propria del diritto, come già accennato. Tuttavia queste tanto attese precisazioni su quali siano le norme del testo di Nizza davvero applicabili direttamente sono state fornite in sentenze il cui merito è ad alta sensibilità costituzionale e politica, come sul tema della sindacabilità delle misure di austerity (imposte cioè espressamente o indirettamente ai paesi a rischio default o anche a quelli solo in stato di grave deficit di bilancio) ed in materia sociale, nonché sul rispetto da parte di alcuni paesi membri del principio della rule of law, il che può essere di aiuto per capire le ragioni e le prospettive di questo rilancio del ruolo costituzionale della Carta.
Sembra esserci un certo consenso tra gli studiosi del processo di integrazione sul fatto che, all’origine dell’irrisolta impasse nelle politiche europee, vi siano le scelte compiute per fronteggiare la crisi dell’euro con il varo di nuovi organi e regole di cui i Trattati erano privi, ma senza la condivisione, almeno in parte, dei duri sacrifici imposti ai paesi indebitati o a rischio default attraverso le misure di recovery dei bilanci nazionali (1). Insomma, scelte d’emergenza maturate nelle drammatiche nottate del 2010 e 2011 che avrebbero minato quello spirito di solidarietà sul quale il processo di integrazione aveva alla fine sempre contato, se non altro perché tale processo distribuiva vantaggi per tutti. Nel suo ultimo, molto pessimistico, intervento lo ricorda anche Jürgen Habermas: «questa spina è ancora oggi conficcata nelle carni e nelle coscienze delle popolazioni europee. Poiché le sfere pubbliche dei diversi paesi, invece di aprirsi l’una all’altra, negli ultimi dieci anni nei vari paesi si sono imposte narrazioni reciprocamente contrastanti della crisi »(2): la percezione che comunque si sia rinunciato ad una convergenza economica tra tutti i paesi membri (almeno per quelli dell’euro) risulta, aggiunge il filosofo francofortese, distruttiva anche nella ricerca di un minimo di convergenza nella gestione del fenomeno migratorio, con la indisponibilità dei paesi meno coinvolti ad aiutare quelli più di frontiera. La rottura del consenso “di base” tra stati si è negli ultimi anni drammaticamente espresso nelle politiche legislative di alcuni paesi liberticide e contrarie a consolidati standard internazionali sulla rule of law (Ungheria e Polonia); dinamiche sulle quali ogni appello ai valori ed ai principi della Carta è risultato sterile. Proprio uno dei padri della Carta, Stefano Rodotà, dava nel 2014 espressione a queste preoccupazioni:«quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato dalla Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of rights, che pure com’è scritto nell’art. 6 del Trattato di Lisbona, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». Ed ancora:«l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti»(3). Ora, senza indulgere su una situazione nota di difficoltà del processo di integrazione, gli ultimi orientamenti della Corte UE sembrano davvero offrire spunti costruttivi in base proprio alla Carta. Passando ai “mali” d’Europa, la Corte di giustizia con la sentenza Ledra del 20.9.2016, C-8/15 P. ha attenuato i principi affermati con la Pringle, C-370/2011 del 27.11.2012 sulla insindacabilità delle misure di austerity adottate alla luce del MES (Meccanismo europeo di stabilità) stante la natura di Trattato internazionale di questo; nel caso del salvataggio delle banche cipriote ha infatti ribadito che il ricorso alla Corte di giustizia per annullare le recovery measures siglate con la Troika non poteva portare al loro annullamento (perché disposte sulla base di un Trattato ad hoc sottoscritto dai paesi membri) ma ha ritenuto ammissibile la richiesta risarcitoria (come in altri successivi casi per altri paesi) nei confronti della Bce e della Commissione per avere negoziato in pretesa violazione degli articoli della Carta dei diritti, anche se poi – nel merito- li ha giudicati non violati trattandosi di provvedimenti necessari nell’interesse generale dello stesso stato cipriota. Un chiaro segnale di insofferenza verso un consolidamento del sistema attuale che sterilizza le norme della Carta proprio nei confronti degli interventi di più acuto rilievo sociale che possono essere adottati nei territori dell’Unione, in una prospettiva di riforma della governance economica dell’euro o quanto meno di rientro dei Trattati sul MES o sul Fiscal Compact nel quadro giuridico dell’Unione. La sentenza del 17 Aprile 2018, Egemberger, C- 414/16 è intervenuta sulla vexata quaestio dei limiti al licenziamento da parte di datori di lavoro religiosi e, pur salvando in linea generale la discutibilissima giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in genere condivisa anche dalla nostra Corte di legittimità), tuttavia demandando al giudice nazionale di verificare se sia dato modo al soggetto di far valere pienamente il diritto ad una verifica sul rispetto del principio di non discriminazione e di proporzionalità della misura adottata. Insomma si esclude quella presunzione quasi assoluta di legittimità del recesso sol perché connesso ad un ”contesto lavorativo religioso” che spesso promana dalla giurisprudenza europea in un tentativo -che ci sembra ragionevole- di bilanciamento tra le finalità non mercatistiche del datore di lavoro e la protezione della sfera privata e delle opinioni personali del lavoratore. Più recentemente la Corte con la sentenza dell’11 Settembre del 2018, C-68/17, IR ha affermato, sulla medesima linea d’onda che «una chiesa o un’altra organizzazione la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, e che gestisce una struttura ospedaliera costituita in forma di società di capitali di diritto privato, non può decidere di sottoporre i suoi dipendenti operanti a livello direttivo a obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di tale etica diversi in funzione della confessione o agnosticismo di tali dipendenti, senza che tale decisione possa, se del caso, essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo .. e dall’altro, una differenza di trattamento, in termini di obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di detta etica, tra dipendenti in posizioni direttive, in funzione della loro confessione o agnosticismo, è conforme alla suddetta direttiva solo se, tenuto conto della natura delle attività professionali interessate o del contesto in cui sono esercitate, la religione o le convinzioni personali costituiscono un requisito professionale essenziale, legittimo e giustificato rispetto all’etica della chiesa o dell’organizzazione in questione e conforme al principio di proporzionalità». Le due sentenze delineano un’autonoma applicabilità con efficacia diretta anche sul piano dei rapporti interprivati dell’art. 21 indipendentemente dalle direttive in materia, con possibile disapplicazione delle norme interne. Infine il cosiddetto Trittico sul diritto alle ferie, tre sentenze emesse dalla Corte di giustizia nella stessa data del 6.11.2018 (4) che hanno affermato l’applicabilità diretta del capoverso dell’art. 31 della Carta con conseguente disapplicazione delle norme interne contrastanti, effetto che invece non può essere attribuito alle direttive nel caso di rapporti tra privati. Un determinante passo in avanti è, però, stato compiuto con la sentenza, davvero di rilevanza storica, sui giudici contabili portoghesi del 24.2.2018, C-64/2016, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, nella quale si ritiene direttamente applicabile (verticalmente) l’art. 19 TUE sui rimedi che gli stati devono introdurre per consentire la piena tutela dei diritti di matrice europea (una norma sino ad oggi poco studiata e ritenuta in genere meramente di principio). Ciò ha consentito alla Corte di valutare se i tagli di stipendio ai giudici contabili, per ragioni di austerity, fossero violativi della Carta ma, più in generale, ha attratto tutto il sistema giudiziario interno nella lente di attenzione della Corte di giustizia anche alla luce del Bill of Rights sovranazionale (e del suo centrale art. 47). Nelle successive decisioni della Corte UE del 25.7.2018, in casi di estradizione verso la Polonia e l’Ungheria, al giudice nazionale sono state delegate cruciali funzioni di accertamento del rischio di violazione degli artt. 47 e 4 della Carta di Nizza per deficit di autonomia ed indipendenza del giudiziario (per la Polonia, sentenza, LM, C—216/18 PPU) o per trattamenti carcerari inumani e degradanti (per l’Ungheria, sentenza ML, C-220/18 PPU). Ai giudici degli stati viene, quindi, attribuito un ruolo rilevantissimo nell’assicurare effettività ai principi dello stato di diritto e delle garanzie primarie dell’individuo, in connessione con l’opera (intensificatasi enormemente negli ultimi anni) della Corte di giustizia di verifica del corretto funzionamento dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel suo insieme. Un rilancio indubbio del ruolo costituzionale primario della Carta obiettivamente convergente con le iniziative adottate dalla Commissione europea di attivazione nei confronti di Ungheria e Polonia della procedura di cui all’art. 7 TUE per violazione dei “valori dell’Unione” di cui all’art. 2. TUE. La Corte poi ha disposto con ordinanza di urgenza nell’ottobre del 2018 la sospensione del pensionamento d’imperio dei giudici della Corte costituzionale polacca in attesa che venga decisa la relativa questione, ordinanza che il governo della Polonia ha rispettato. Si tratta di un orientamento di lungo periodo culminato nella più recente sentenza C-585/18, C-624/18 e C-625/18 A.K. che ha concluso nel senso che “l’ articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che controversie relative all’applicazione del diritto dell’Unione possano ricadere nella competenza esclusiva di un organo che non costituisce un giudice indipendente e imparziale, ai sensi della prima di tali disposizioni. Ciò si verifica quando le condizioni oggettive nelle quali è stato creato l’organo di cui trattasi e le caratteristiche del medesimo nonché il modo in cui i suoi membri sono stati nominati siano idonei a generare dubbi legittimi, nei singoli, quanto all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni, in particolare rispetto a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti e, pertanto, possano portare a una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detto organo, tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica. Spetta al giudice del rinvio determinare, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti di cui dispone, se ciò accada con riferimento a un organo come la Sezione disciplinare del Sąd Najwyższy (Corte suprema). In una tale ipotesi, il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare la disposizione di diritto nazionale che riservi a detto organo la competenza a conoscere delle controversie di cui ai procedimenti principali, di modo che esse possano essere esaminate da un giudice che soddisfi i summenzionati requisiti di indipendenza e di imparzialità e che sarebbe competente nella materia interessata se la suddetta disposizione non vi ostasse».
Importantissimi appaiono anche i punti da 116 a 124 nei quali si mette in campo anche la giurisprudenza Cedu come richiamata all’art. 52 della Carta in modo da dispiegare tutto l’armamentario costituzionale delle due Corti europee per risolvere il caso: « A tale riguardo, e conformemente a giurisprudenza costante, in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, pur spettando all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti individuali derivanti dal diritto dell’Unione, gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurare, in ogni caso, il rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva di detti diritti quale garantito dall’articolo 47 della Carta…. Occorre peraltro ricordare che l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta precisa che, laddove essa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti da detta Convenzione. Orbene, come risulta dalle spiegazioni relative all’articolo 47 della Carta, che, conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE e all’articolo 52, paragrafo 7, della Carta, devono essere prese in considerazione per l’interpretazione di quest’ultima, i commi primo e secondo di tale articolo 47 corrispondono all’articolo 6, paragrafo 1, e all’articolo 13 della CEDU… La Corte deve, pertanto, sincerarsi che l’interpretazione da essa fornita dell’articolo 47, secondo comma, della Carta assicuri un livello di protezione che non conculchi quello garantito all’articolo 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo… Per quanto riguarda il contenuto di tale articolo 47, secondo comma, dalla formulazione stessa di tale disposizione emerge che il diritto fondamentale a un ricorso effettivo da essa sancito implica, in particolare, il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata equamente da un giudice indipendente e imparziale. Questo requisito di indipendenza degli organi giurisdizionali, intrinsecamente connesso al compito di giudicare, costituisce un aspetto essenziale del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva e del diritto fondamentale a un equo processo, che riveste importanza cardinale quale garanzia della tutela dell’insieme dei diritti derivanti al singolo dal diritto dell’Unione e della salvaguardia dei valori comuni agli Stati membri enunciati all’articolo 2 TUE, segnatamente del valore dello Stato di diritto…. Secondo giurisprudenza costante, detto requisito di indipendenza implica due aspetti. Il primo aspetto, di carattere esterno, richiede che l’organo interessato eserciti le sue funzioni in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo gerarchico o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, con la conseguenza di essere quindi tutelato dagli interventi o dalle pressioni esterni idonei a compromettere l’indipendenza di giudizio dei suoi membri e a influenzare le loro decisioni. Il secondo aspetto, di carattere interno, si ricollega alla nozione di imparzialità e concerne l’equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi riguardo all’oggetto di quest’ultima. Questo aspetto impone il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione da dare alla controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica …. Tali garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole, relative in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti. Del resto, conformemente al principio della separazione dei poteri che caratterizza il funzionamento di uno Stato di diritto, l’indipendenza dei giudici dai poteri legislativo ed esecutivo deve essere garantita».
Conclusioni. Con la “svolta” compiuta negli ultimi anni la Corte di giustizia rilancia la Carta come parametro costituzionale delle politiche dell’Unione su di un triplice aspetto. In primo luogo offre preziosi contributi di merito soprattutto su temi sociali come le garanzie dei lavoratori nelle organizzazioni di tendenza, la non discriminazione o le tutele contro misure di austerity lesive dei diritti fondamentali rispondendo alle preoccupazioni molto diffuse sulla scarsa incisività delle norme della Carta in campo sociale; inoltre allarga il suo raggio di azione alla verifica della salvaguardia delle basilari regole dello stato di diritto nei singoli paesi, in particolare con riferimento alle garanzie di indipendenza ed autonomia del potere giudiziario valorizzando l’art. 47 della Carta come vettore della verifica del rispetto dell’art. 2 del TUE che sancisce i “ valori” dell’Unione tra i quali centrale il rispetto dello stato di diritto. Infine la Corte attribuisce per questi sentieri garantisti una particolare efficacia posto che dal 2017 ha iniziato a stabilire con precisione quali sono le norme della Carta che possono essere autopplicative (self executing) anche nel senso della disapplicazione della normativa interna: l’art. 21 (divieto di discriminazione ), l’art. 31, 2 (diritto alle ferie) l’art. 8 ( diritto alla privacy),l’ art. 48 (diritto di difesa), l’art. 49 (principio di legalità), l’art. 50 (ne bis in idem ); il che non vuol certo dire che gli altri articoli della Carta non siano produttivi di effetti, ma solo che per i primi si può arrivare certamente (l’elenco comunque non è forse completo) ad una disapplicazione che consente alla Corte con maggiore prontezza di rendere la sua giurisprudenza immediatamente efficace con una particolare forza nei confronti della normativa interna attraverso l’intervento dei giudici nazionali.
Una risposta, per lo meno sul piano giudiziario, insomma piuttosto decisa della più alta Corte dell’Unione alle tante crisi del vecchio continente.
(Autore di questo Bollettino è Giuseppe Bronzini)
1 Cfr. da ultimo C. MARGIOTTA, Europa: diritto della crisi e crisi del diritto, Il Mulino, Bologna, 2018
2 J. HABERMAS, L’Europa che mi sembra necessaria in Micromega, n. 2/2019, pp. 145 ss.
3 S. RODOTA’, Il pensiero debole dell’Europa che si accontenta, in La Repubblica, 9 gennaio 2014; G. BRONZINI, La Carta dei diritti è effettiva?, In Teoria politica, 2016, pp. 249 ss.
4 Si tratta della Bauer , C-569/2016 e C-570/16; della Max Planck, C-684/16 e, molto simile a quest’ultima, della Kreuziger, C-619/2016