La discriminazione basata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere
È in corso la discussione in Commissione Giustizia della Camera di alcuni progetti di legge in tema di divieto di discriminazione (C. 107 Boldrini, C. 569 Zan, C. 868 Scalfarotto, C. 2171 Perantoni e C. 2255 Bartolozzi). Attualmente è penalmente sanzionato il divieto di propagandare idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero di istigare a commettere o di commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Tale divieto è dal 2018 collocato nel Codice penale tra i delitti contro l’eguaglianza (artt. 604 bis e 604 ter C.p.), che puniscono anche gli atti di violenza e l’organizzazione di associazioni che abbiano tra i loro scopi l’incitamento alla violenza o alla discriminazione per quegli stessi motivi. Nella seduta dalla Commissione Giustizia del 14 luglio 2020 è stato adottato un testo unificato che prevede l’aggiunta nei due articoli citati dei motivi fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Sono in discussione emendamenti al testo unificato.
Le relazioni che accompagnano i diversi progetti di legge menzionano la necessità di adeguare la legislazione italiana alle indicazioni che discendono sia dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, che in diverse sentenze ha riscontrato atteggiamenti discriminatori in danno della comunità LGBT da parte delle autorità di diversi Stati europei, con violazione dell’art. 14 della Convenzione europea dei diritti umani, sia da atti come le Risoluzioni del Parlamento europeo del 17 gennaio 2006 e del 26 aprile 2007 contro l’omofobia e la discriminazione nei confronti della comunità LGBT.
Nel testo in discussione si prevedono anche alcune misure di sostegno alle vittime della discriminazione e di monitoraggio e controllo del fenomeno. Ma per l’essenziale, rispetto alla legge già vigente, si tratta di allargare il campo degli atteggiamenti discriminatori vietati. La frequenza di aggressioni o insulti di tale natura spiega l’iniziativa in corso di esame. Tuttavia la proposta in discussione ha sollevato vivaci critiche da parte di varie associazioni, che sono state anche riprese recentemente dalla Conferenza episcopale italiana, la quale si è detta preoccupata per la libertà di espressione. La questione della compatibilità di quei divieti con la libertà di espressione, garantita dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti umani, va naturalmente presa sul serio. Se però un problema esiste, esso non nasce con la nuova integrazione del testo vigente. Esso era già presente, rispetto al testo della legge ora in vigore.
La libertà di espressione non è priva di limiti. Non si possono ledere i diritti e la reputazione altrui, non si può incitare all’odio o alla violenza. La Costituzione afferma la pari dignità sociale di tutti, che non si può negare o offendere. Sono possibili (o addirittura doverose) restrizioni alla libertà di espressione, con il limite della necessaria idoneità delle dichiarazioni offensive a mettere concretamente in pericolo i valori protetti. In questo senso si sono da tempo espresse la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e tutte le istituzioni europee che promuovono la difesa dei diritti fondamentali.
Ciò non significa che non possano creare qualche problema alcune espressioni contenute nelle disposizioni del codice penale, che ora si vuole ampliare con il riferimento all’orientamento sessuale e alla identità di genere. Mi riferisco ad espressioni come “atti discriminatori”, rispetto al requisito della determinatezza dei fatti che la legge intende punire e alla loro lesività dei beni protetti. Si tratta di qualità che necessariamente deve avere la legge penale, per come è scritta o per come è interpretata e applicata dai giudici.
Il divieto di discriminazione è l’altra faccia del diritto alla eguaglianza. L’eguaglianza davanti alla legge è garantita dalla Costituzione. Il divieto di discriminazione rispetto ai diritti e alle libertà è considerato dalla Convenzione europea dei diritti umani. Non vi è sostanziale differenza. Sia l’eguaglianza da assicurare, sia la discriminazione da impedire richiamano la questione delle differenze e di quanto e quando queste legittimino o impongano un diverso trattamento. I fatti e le persone sono sempre diversi, almeno per qualche particolare, ma, per legittimare un diverso trattamento, le diversità devono essere pertinenti. E il differente trattamento deve essere giustificato e proporzionato. Si entra nel campo della discriminazione quando il diverso ingiustificato trattamento si riferisce ai diritti e alle libertà previsti dalle leggi. Eguali davanti alla legge, dice la Costituzione. Per il resto, accanto alla pretesa di eguaglianza, vediamo bene che vi è quella del rispetto delle differenze. E le differenze sono oggetto di libera discussione, su ciò che è meglio o peggio, preferibile o da evitare, da raccomandare o sconsigliare, ecc. Non c’è anche l’orgoglio omosessuale, nei Gay Pride accanto alla rivendicazione della pari dignità sociale? Lecito naturalmente, purchè ne sia possibile la discussione.
Non sarebbe dunque accettabile una lettura della legge nel senso del divieto di esprimere opinioni che “discriminino”, nel senso che distinguano (ora sulla base razziale o etnica, nazionale o religiosa e domani anche di orientamento sessuale o identità di genere). Se gli atti considerati non comportano una limitazione o un rifiuto di riconoscere diritti o libertà, non si tratta di discriminazione che possa essere punita. A meno che vi sia uso di espressioni offensive, ingiuriose, diffamatorie o minacciose (che di per sé offendono diritti altrui). In quel caso il movente discriminatorio giustifica un aggravamento della pena. Ma non dovrebbe riconoscersi reato nel caso in cui vi sia la sola affermazione di un aspetto di diversità di una persona rispetto all’altra, di un gruppo rispetto all’altro e, senza offese, se ne discutano le conseguenze. In tal senso è l’esperienza nella giurisprudenza sia della Corte di Cassazione, che della Corte europea dei diritti umani. La prima ha riconosciuto il reato in un caso di gravi offese ai Rom in generale (Cass., sez. V, 22 luglio 2019 n. 32862). La seconda, in un ricorso contro l’Islanda (decisione Lilliendhal c. Islanda del 12 maggio 2020), ha ritenuto giustificata la condanna di una persona che aveva usato espressioni ingiuriose, dicendosi disgustata dagli omossessuali e da una iniziativa di educazione sessuale disposta dal governo nelle scuole. Nell’un caso e nell’altro si trattava quindi di espressioni ingiuriose, motivate dall’origine etnica o dall’orientamento sessuale di coloro che venivano offesi.
L’essenza del reato e la ragione che ne giustifica la previsione, sta quindi nella offesa rivolta ad altri o ai gruppi cui appartengono: ingiuria, diffamazione, disprezzo, minaccia, odio. Non è questo ciò cui si riferisce la libertà di espressione.