Bollettino n. 32 – settembre 2021

La parità di trattamento tra cittadini dell’Unione e cittadini extracomunitari nell’accesso alle prestazioni “familiari” secondo la Corte di giustizia

Sommario. 1. La ricostruzione della vicenda. 2. La sentenza della Corte di giustizia. 3. Rilevanza e sviluppi della sentenza.

1. La ricostruzione della vicenda. La sentenza della Corte di giustizia del 2 Settembre 2021, O.D. ed altri / INPS, C-350/2020 si inserisce in un imponente contenzioso italiano relativo alla parità di trattamento tra cittadini dell’Unione e cittadini extracomunitari presenti in Italia con regolare permesso di soggiorno (soprattutto per motivi di lavoro, ma anche per altre, ammesse, ragioni di studio e formazione) ma ancora senza lo status di “lungo- soggiornanti”, autorizzazione che si consegue molto più tardi e sulla base di condizioni piuttosto selettive. Si tratta quindi di soggetti che sono entrati del tutto regolarmente in Italia e che, soprattutto chi lavora, contribuiscono direttamente alla ricchezza del paese che li ospita con la loro spesso insostituibile attività pagando regolarmente i tributi ed osservando gli obblighi che gravano sui cittadini italiani ed europei. Tuttavia la legislazione italiana ha spesso loro riservato un trattamento differenziato rispetto ai “lungo-soggiornanti” negando loro accesso ad un novero di prestazioni sociali essenziali, senza tener conto di alcune disposizioni, sulle quali torneremo, del diritto dell’Unione. Il regolamento n. 883 del 2004 ha, funzione di garanzia e promozione della libertà di stabilimento dei cittadini lavoratori dei paesi dell’Unione in altri stati aderenti, architrave della costruzione di un mercato unico, ha stabilito di far accedere tali cittadini ai sistemi di sicurezza sociale dei paesi ove questi si siano spostati per risiedere con una certa continuità. Si tratta di un principio essenziale per lo sviluppo di un sistema economico integrato europeo posto che non dovrebbe costituire un ostacolo alla mobilità all’interno dell’Unione il pericolo di non essere adeguatamente protetti in relazione ai principali rischi sociali perdendo così il trattamento più favorevole del paese di origine. Il regolamento del 2004 definisce così in dettaglio le condizioni ed i termini di questa parità di trattamento; più tardi la direttiva 2011/98 , nel disciplinare i vari tipi di permesso di soggiorno per i cittadini di paesi terzi (cioè non aderenti all’U.E.) , in particolare con l’introduzione del permesso unico di lavoro, ha esteso a coloro che sono legalmente residenti nei paesi dell’Unione i principi (sostanzialmente non discriminatori) del regolamento del 2004 e cioè l’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, segnatamente quelli a carattere “familiare” (salvo il potere di deroga per soli sei mesi se concretamente esercitato dagli stati ospitanti). In sostanza i principi di universalità ed uguaglianza riguardo alcuni diritti sociali fondamentali, attraverso questo incastro tra regolamento del 2004 e direttiva del 2011, vengono estesi all’intera platea di soggetti che risiede legalmente e con continuità in un certo paese dell’Unione sulla base della considerazione che chi vive stabilmente e per ragioni legittime in un determinato stato dell’Unione deve poter accedere a quelle prestazioni che questo stato riserva ai suoi cittadini e che sono indispensabili ad una schermatura dai rischi fondamentali, tale da proteggerlo nei suoi “bisogni di base”, nonostante la decisione di trasferirsi in altro paese.

In Italia invece questa estensione è stata negata sino all’acquisizione dei cittadini extracomunitari dello status di lungo-soggiornante, sulla base di una legislazione che ha ignorato le disposizioni sovra-nazionali per le varie tipologie di assegni di natalità e per l’assegno di maternità (ma anche per altre provvidenze non esaminate dalla sentenza Corte di giustizia): da ciò si è generato un ampio contenzioso avanti i giudici italiani che, in prevalenza, hanno riconosciuto il diritto alla parità di trattamento disapplicando la normativa interna per contrasto con il diritto dell’Unione, anche interpretato alla luce degli artt. 20 (uguaglianza avanti la legge), 21 (principio di non discriminazione) e 34 ( sul diritto alla sicurezza ed all’assistenza sociale) della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. (1). La questione è poi arrivata alla Corte di cassazione che, con una serie di ordinanze, ha ritenuto che le disposizioni interne sull’assegno di natalità (la cui disciplina è mutata nel tempo) e su quello di maternità violassero contemporaneamente sia le norme della Carta dei diritti che la nostra Costituzione per cui, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 269 del 2017, fosse preferibile attivare un incidente di costituzionalità alla Corte costituzionale invece che un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in modo da ottenere l’eliminazione definitiva della norma dall’ordinamento interno, effetto che una mera disapplicazione non può ottenere.

La Corte costituzionale ha invece optato per un rinvio pregiudiziale con l’ordinanza n. 182 del 2020 per ottenere un chiarimento da parte del Giudice comunitario sulle definizioni utilizzate nella direttiva del 2011 (e del connesso regolamento 883/84) onde meglio stabilire il campo di applicazione delle norme dell’Unione, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 34 della Carta dei diritti dell’Unione, invitando i supremi Giudici sovranazionali a valutare se la normativa sovranazionale fosse di ostacolo all’esclusione degli stranieri dotati di permesso unico (di lavoro) dall’accesso alle prestazioni. La sentenza emessa il 2 settembre dalla Corte di giustizia deriva, quindi, da una stretta collaborazione costruttiva tra i supremi organi giurisdizionali italiani ( Cassazione e Corte costituzionale) e la Corte di giustizia dell’Unione anche sotto il profilo di una chiarificazione sulla riconducibilità delle varie misure adottate dagli stati per sostenere le famiglie (e a promuovere la natalità, in declino verticale nel vecchio continente) ad una categoria unitaria. E ciò alla luce degli interventi normativi dell’Unione onde consentire, in linea di principio, l’accesso a tutti coloro che risiedono attivamente (e legalmente) nei territori degli stati membri. La sentenza, su richiesta italiana, è stata emessa nella più alta composizione della Corte- la Grande Sezione- e quindi presenta una particolare autorevolezza.

2. La sentenza della Corte di giustizia. La Corte di giustizia ha emesso una decisione molto chiara ed univoca sulla riconducibilità delle prestazioni prima ricordate nell’alveo del principio di parità di trattamento in favore dei cittadini di paesi terzi affermato dall’art. 12 della direttiva 2011/98. La Corte premette che l’art. 34 paragrafo 1 della Carta dei diritti U.E. riconosce l’accesso a una serie di prestazioni di sicurezza sociale ed ai servizi sociali secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali. Il paragrafo 2 sancisce che “ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale ed ai benefici sociali, sempre conformemente al diritto ed alle legislazioni e prassi nazionali”. Ora, afferma la Corte, il regolamento 883/2004 stabilisce le prestazioni (dello stato ospitante) che comunque spettano ai cittadini dell’Unione quando si spostano stabilmente in altro stato membro e l’art. 12 della direttiva 2011/98 estende i principi di parità di trattamento per quanto concerne i settori della sicurezza sociali disciplinati dal regolamento ai cittadini extracomunitari che risiedano legalmente in uno degli stati dell’U.E.: “con tale rinvio al regolamento occorre constatare che l’art. 12.. della direttiva 2011/98 dà espressione al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 34 par. 1 e 2 della Carta”. Pertanto la Corte U.E. ha deciso la questione rimessa dalla nostra Corte costituzionale sulla base della normativa secondaria dell’Unione in quanto le norme sovranazionali apparivano di per sé chiare ed univoche dando attuazione ai principi di uguaglianza e non discriminazione recepiti dalla Carta dei diritti.

La Corte ricorda i propri precedenti (in particolare la sentenza del 2.6.2017, Martinez Silva, C- 449/16, spesso già applicata dai Giudici italiani ai fini della disapplicazione delle norme interne ) secondo la quale per stabilire se alcune prestazioni sociali rientrano o meno nel campo di applicazione del regolamento 883/2004 occorre fare riferimento agli elementi costitutivi della prestazione, in particolare alle loro finalità ed ai presupposti per la concessione apparendo irrilevante se lo stato abbia qualificato la misura come a carattere previdenziale o meno. La misura può essere considerata previdenziale se “da un lato è attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege e dall’altra se si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all’art. 3 par. 1 del regolamento 883/2004”. Queste prestazioni devono essere attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a criteri oggettivi definiti ex lege e non sulla base di una valutazione discrezionale dell’autorità delle esigenze personali del richiedente già al momento della concessione del beneficio; sono considerate prestazioni familiari (rientranti nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento del 2004) tutti i contributi pubblici destinati al bilancio familiare destinati ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli. Fatte queste precisazioni circa l’assegno di natalità la Corte evidenzia che si tratta di un assegno erogato dall’INPS che mira principalmente a contribuire alle spese derivanti dalla nascita di un figlio, concesso sulla base di previsioni normative che all’inizio lo attribuivano alle famiglie sotto una determinata soglia di reddito e poi esteso a tutte le famiglie ma stabilito in concreto sulla base di indicatori di disponibilità economica familiare. Le modifiche intervenute non appaiono rilevanti per escludere la natura di “prestazioni familiare” visto che comunque i criteri sono predeterminati per legge ed hanno la chiara funzione di sostenere il bilancio familiare, poco importa- ci dice la Corte- se a questa funzione si aggiunge lo scopo premiale di incentivare la natalità che si cumula a quella richiesta dalla normativa dell’Unione. Circa l’assegno di maternità la Corte osserva che l’aiuto è concesso per ogni figlio nato (o adottato) alla donna che non sia già beneficiaria di un’indennità di maternità come lavoratrice (autonoma, subordinata o professionista) nei casi in cui il nucleo familiare non superi una certa soglia di disponibilità economica. Anche in questo caso la misura è correlata a parametri oggettivi e predeterminati ex lege, senza discrezionalità dell’amministrazione: questi benefici rientrano quindi tra i settori della sicurezza sociale che il legislatore europeo ha ritenuto pertinenti per estendere la protezione non solo ai cittadini dell’Unione ma anche a coloro che vi risiedono legalmente (sia con permesso unico per lavoro che per altri motivi riconosciuti come quelli di studio o ricerca): conseguentemente la normativa sovranazionale osta a quella nazionale che richiede per i beneficiari la titolarità del permesso di lungo-soggiornanti. La Corte di giustizia risponde quindi univocamente alla Corte costituzionale senza rinviare ad ulteriori accertamenti da parte del giudice nazionale sulle finalità della normativa interna. Il contrasto è pieno, la risposta è secca.

3. Rilevanza e sviluppi della sentenza. Certamente si tratta di una decisione di importanza continentale il cui significato non è limitato all’esame di una legislazione interna che, sia a livello dottrinario che giurisprudenziale, è stata definita come discriminatoria (e oggetto di una specifica procedura di infrazione promossa dalla Commissione nel 2019). La Corte di giustizia offre, infatti, parametri obiettivi e piuttosto chiari e persuasivi per qualificare una prestazione come di sicurezza sociale o “familiare” alla luce del regolamento del 2004 e della direttiva del 2011 che a questa si riferisce. Inoltre (e questo sembra il punto più importante di novità) ammonisce gli stati che non è sufficiente per esimersi dagli obblighi che derivano dal diritto dell’Unione aggiungere finalità ulteriori a quelle indicate dalle legislazione sovranazionale ai fini della parità di trattamento perché è sufficiente che la misura comunque persegua anche gli obiettivi indicati dal regolamento del 2004. Vengono così messi in mora quei paesi che, per ragioni di risparmio nei costi o anche di politica del diritto diretta a privilegiare i soli cittadini nell’accesso al welfare, introducono surrettiziamente, soprattutto per le misure in favore delle famiglie, plurimi obiettivi onde camuffare la discriminazione attuata nei confronti soprattutto di chi legalmente lavora da anni nel paese ospitante. La sentenza, al di là dello stile asciutto senza grandi digressioni extra-normative, avrà un notevole significato ugualitario ed universalistico, con un prevedibile impatto non secondario per indurre gli stati a rispettare le scelte antidiscriminatorie dell’Unione. La parola ora ritorna alla Corte costituzionale che dispone ora di una ricognizione molto precisa della normativa sovranazionale e dell’incompatibilità tra questa e la legislazione nazionale. La decisione potrebbe avere indirettamente effetti anche sul contenzioso giudiziario interno che riguarda altre provvidenze a carattere sociale (ad esempio l’aiuto alle famiglie bisognose per gli affitti, per le tariffe dei servizi essenziali etc.) in genere adottate dagli enti locali sulla base di provvedimenti che escludono i cittadini dei paesi terzi senza il permesso di lungo soggiorno, in certi casi addirittura quelli dei paesi U.E. o richiedono periodi di residenza effettiva in Italia così lunga da escludere i migranti lavoratori. Va anche ricordato che il reddito di cittadinanza italiano (di cui alla l. n. 26 del 2019) è attribuito a chi abbia una residenza continuativa di almeno dieci anni e la misura viene in primis definita come di “politica attiva” come a mascherare il sistema in vigore per il quale il RDC è erogato su base familiare. La giurisprudenza della Corte di giustizia, con la sua opzione per una nozione molto ampia di “prestazione familiare” e di “sicurezza sociale”, nel riconoscimento di principi generali antidiscriminatori, dovrebbe favorire un processo in corso (2) di revisione equitativa della normativa sociale interna con l’accesso alle prestazioni quantomeno ai soggetti cittadini dei paesi terzi che godono di un permesso unico di lavoro.

1 Il sito dell’ASGI (Associazione italiana giuristi dell’immigrazione) offre un panorama vasto e sempre aggiornato delle decisioni dei giudici italiani in materia.

2 Con la legge delega n. 46 del 2021 del 2021 sull’assegno unico si includono tra i beneficiari i titolari di un permesso unico di lavoro o di ricerca di durata almeno annuale cui si aggiunge il requisito di residenza da almeno due anni, requisiti che non sembrano coincidere con quelli fissati dal diritto dell’Unione, pur superando il precedente ostacolo dello status di lungo soggiornanti.

Competenze

Postato il

Settembre 27, 2021

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi