L’ACCESSO NON DISCRIMINATORIO ALLE PRESTAZIONI DI WELFARE
L’ORIENTAMENTO DELLE CORTI EUROPEE
I principi e le norme
Il principio di non discriminazione è certamente un pilastro essenziale dei sistemi sovranazionali di protezione degli individui: ad esso, nell’integrazione crescente con i sistemi interni, è stato nel corso del tempo conferita un’estensione sempre più ampia ed un’efficacia sempre più intensa.
Consideriamo qui tale principio in campo sociale con particolare riferimento all’impatto garantista che le due norme delle Carte sovra-nazionali – rispettivamente l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) – stanno producendo su una diffusa giurisprudenza interna, in materia di accesso alle prestazioni di welfare per i cittadini non italiani.
Per quel che riguarda, in generale, l’ordinamento del Consiglio d’Europa, certamente un certo ostacolo al pieno dispiegamento del divieto di qualsiasi discriminazione deriva dalla correlazione, posta dall’art. 14 Cedu, con il “godimento dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione” che, notoriamente, è un elenco nel quale non rientrano i diritti cosiddetti di terza generazione e cioè a contenuto socio-economico. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha da tempo ricondotto nell’alveo dell’art.1 Protocollo n. 1 (che tutela la proprietà) i crediti di lavoro e le prestazioni sociali acquisite (in quanto compongono il “patrimonio in senso lato” del soggetto). Inoltre l’art. 14 si applica anche ai diritti comunque connessi o ricadenti nell’ambito di quelli espressamente considerati dalla Convenzione. In materia sociale si ritiene che gli Stati abbiano un ampio margine di apprezzamento, certamente superiore a quello consentito in altri settori, ma sul loro operato, comunque, vigila il Comitato economico-sociale, che ha come testo di riferimento la Carta sociale europea in cui figurano tutte le principali prerogative socio-economiche.
Discorso diverso va fatto riguardo all’ordinamento dell’Unione europea, che contempla numerosi e ambiziosi obiettivi di natura sociale e politica nel settore che si irradiano a macchia di leopardo nelle discipline interne sia lavoristiche che concernenti la “sicurezza sociale”. La Carta dei diritti fondamentali integra in modo piuttosto felice (anche se con formulazioni molto generali) questa dimensione in un insieme di prerogative individuali e collettive. Il principio di non discriminazione, pertanto, può far riferimento a parametri normativi e a criteri più precisi. Inoltre la lotta alla discriminazione nei suoi principali aspetti è una delle più significative politiche dell’Unione, perseguita attraverso specifiche direttive (tra le quali la n. 2000/43/CE sulla razza e l’origine etnica, la n.2000/78/CE sull’occupazione e le condizioni di lavoro, la n. 2003/109/CE sullo status dei lavoratori dei paesi terzi lungo-soggiornanti nel territorio dell’Unione, la n. 2004/113/CE sulla parità uomo-donna nell’accesso a beni e servizi ed altre ancora) e sanzionata dagli artt. 18 (per quanto riguarda la discriminazione secondo la nazionalità) e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (che stabilisce una procedura ad hoc per gli interventi di contrasto), oltre che dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali. Va anche sottolineato come, nello sviluppo del processo di integrazione, il principio di non discriminazione sia stato strettamente connesso alla costruzione di un mercato unico interno incentrato sulla libertà di stabilimento in altri Paesi membri dei lavoratori con cittadinanza dell’Unione. Questa libertà presuppone che quei lavoratori debbano essere ammessi senza riserve ai sistemi nazionali di welfare e possano veder riconosciuti i benefici pensionistici acquisiti nel paese di provenienza: tale parità di trattamento è stata poi estesa, pur se con qualche riserva, anche ai lavoratori provenienti da paesi terzi. Il principio di non discriminazione viene così ad acquisire una doppia connotazione: da un lato è criterio di civiltà giuridica e di tutela dell’eguale dignità della persona, dall’altro è un veicolo di apertura delle barriere nazionali e quindi un cardine dello stesso disegno economico e funzionalistico di un mercato unico continentale. La ragione economica, almeno in questo campo, sembra valorizzare e rafforzare i principi costituzionali di eguaglianza e di tolleranza.
Alcune importanti decisioni giudiziarie
Useremo come test dell’efficacia di questa normativa europea e dei connessi orientamenti delle due Corti sovranazionali, un vasto contenzioso sviluppatosi soprattutto nel Nord-Italia che ha ad oggetto l’operato di alcuni Comuni, Province e Regioni nella concessione di benefici sociali (di carattere assistenziale ), che li ha subordinati al possesso di requisiti di anzianità di iscrizione anagrafica o di cittadinanza (ipotesi più rara), sì da escludere nei fatti o renderne molto difficile l’erogazione in favore di cittadini comunitari o di paesi terzi. Moltissime sono state in questi ultimi anni le controversie (ancora non arrivate al giudizio della Corte di cassazione) aventi ad oggetto questo tipo di discriminazione; i processi sono stati resi più facili ed anche utili (dal punto di vista di un intervento dell’Autorità giudiziaria in tempi stretti) dalle nuove procedure antidiscriminatorie interne, più snelle e con carattere di urgenza, create per rispettare le direttive europee.
a) Un primo, importantissimo, riscontro si è avuto dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del 24.4.2012 Kamberaj ( C-571/10) su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Bolzano, adito da un cittadino albanese con la speciale procedura antidiscriminatoria di cui si è già detto. Il Kamberaj, titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, aveva percepito il cosiddetto “sussidio casa” (un aiuto per pagare l’affitto) previsto dalla Legge provinciale bolzanese per gli anni 2008-2009, ma la domanda per il 2009 era stata poi respinta per esaurimento dei fondi stanziati in rapporto alla categoria di appartenenza (cittadino di un paese terzo). Queste restrizioni invece non avevano colpito le analoghe domande formulate da cittadini italiani o di altri paesi appartenenti all’Ue (in virtù di un calcolo più favorevole nei criteri di ripartizione delle spese della Provincia). La Corte di giustizia ha in primo luogo stabilito che l’art. 11 comma 4 della direttiva 2003/109/CE – che sancisce il criterio della parità di trattamento tra cittadini comunitari e cittadini dei paesi terzi nell’accesso alle prestazioni sociali ed assistenziali – non può essere in alcun modo derogato quanto alle prestazioni concesse dalle autorità pubbliche a livello nazionale, regionale o locale che “contribuiscono a soddisfare le … necessità elementari come il vitto, l’alloggio e la salute” ( punto 91 della sentenza). Le indicazioni offerte dalla Direttiva che, ad esempio, parla di prestazioni a titolo di reddito minimo, vanno infatti interpretate in senso estensivo, alla luce dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che “riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale ed abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti”. La norma, quindi, opera nel ragionamento della Corte come parametro costituzionale di legittimità del testo della Direttiva. Sebbene, come spesso accade, molte valutazioni e accertamenti siano stati devoluti al Giudice del rinvio, cioè al Giudice ordinario italiano, è evidente che la Corte di giustizia ha ritenuto che abbiano diritto a una tutela antidiscriminatoria (in base alla direttiva citata) i soggetti che, in ragione del loro essere cittadini extracomunitari, hanno sofferto l’esclusione da benefici che assicurano risorse per bisogni elementari (dai sussidi per la casa, a quelli per i bebè, al reddito minimo per le – poche – realtà territoriali che lo concedono, agli aiuti per le famiglie numerose etc.). La decisione della Corte non potrà che rafforzare il quadro giurisprudenziale che sin qui si è consolidato nelle Regioni del Nord-Italia, anche se per il momento solo nei giudizi di merito. Va notato, peraltro, come in questo caso sia venuta in rilievo in modo quasi esclusivo la disciplina dell’Unione europea che, una volta ritenuta applicabile, porterebbe alla disapplicazione degli atti amministrativi discriminatori.
b) Il Tribunale di Verona con sentenza del 17.10.2002 (leggibile in www.asgi.it) ha, ad esempio, già applicato i principi fissati dalla Corte di Giustizia con la sentenza Kamberaj stabilendo che spetta ai cittadini di paesi terzi il diritto all’assegno INPS per i nuclei familiari numerosi (almeno tre figli minori) nei confronti dello stesso INPS e del Comune di Verona, avendo ritenuto sussistente la condotta discriminatoria contestata.
c) Tuttavia è anche interessante notare come la Corte di appello di Milano con sentenza del 19.9.2012 (leggibile in www.asgi.it) ha ritenuto che spetti il medesimo assegno INPS per i nuclei familiari anche agli stranieri di paesi terzi non “lungo soggiornati” (e quindi non coperti dalla citata Direttiva) in quanto sussisterebbe, altrimenti, una discriminazione alla luce del combinato disposto dell’art. 14 e del Protocollo n. 1 della Cedu. La Corte di appello ha osservato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in particolare le due sentenze Koua Poirrez c. Francia del 30.9.2003 e Gaygusuz c. Austria del 16.6.1996), l’esclusione dei cittadini stranieri da prestazioni di welfare deve avere “ragioni molto forti”, quali non sono mere esigenze di contenimento della spesa. I Giudici di appello di Milano hanno, anche sul punto, richiamato la stessa Corte costituzionale italiana che – con la sentenza n. 187 del 26.6.2010 – anche alla luce della giurisprudenza della Cedu (è stata richiamata in proposito la sentenza del 6 luglio 2005 Staic ed altri c. Regno Unito), ha ritenuto discriminatoria l’esclusione di cittadini extracomunitari, che non hanno la cosiddetta “carta di soggiorno” ma che non sono illegali, da prestazioni sociali come l’assegno di invalidità.
d) Ed ancora il Tribunale di Trieste con sentenza 25.9.2012 (leggibile in www.asgi.it) ha ritenuto che l’esclusione dei cittadini di altri paesi membri dell’Ue dalla “carta acquisti” (detta anche social card) violasse sia il principio di non discriminazione per ragioni di nazionalità, sancito all’art. 18 del TFUE e dalla Carta dei diritti all’art. 21, sia lo stesso diritto-principio di libera circolazione dei lavoratori, alla base di numerose direttive e regolamenti comunitari. Il Tribunale di Trieste con altra sentenza del 29.11.2012 (leggibile in www.asgi.it) ha accertato, in quest’ultima prospettiva, la contrarietà al principio di libera circolazione della decisione della Regione Friuli Venezia Giulia di subordinare ad una anzianità di residenza almeno decennale l’accesso al “fondo locazioni” previsto dalla legislazione regionale.
Si potrebbe continuare con gli esempi: dall’insieme delle decisioni interne degli ultimi due anni emerge il grandissimo rilievo che le fonti e la giurisprudenza sovranazionali esercitano nel favorire la protezione sociale, soprattutto quella di carattere assistenziale, secondo principi di parità di trattamento e non discriminazione riguardo ai cittadini di altri paesi Ue, ma anche agli extracomunitari legalmente residenti. In quest’ottica fonti ed orientamenti interni tendono a fondersi con quelli di matrice europea, come mostrato dalla stessa Corte costituzionale con la già ricordata sentenza del 2010. Si attua così (non solo nel nostro paese ma in tutta Europa) una certa estensione delle prestazioni di welfare, che vengono erogate (oltre che ai cittadini del singolo Stato interessato) anche a persone che hanno un certo radicamento nel mercato del lavoro del paese. Si tratta di un passo importante, anche se certamente di ordine preliminare, per la costruzione effettiva di un’Europa sociale. Questa infatti non può reggersi sul solo principio di non discriminazione, ma presuppone anche l’approntamento di politiche sociali comuni e condivise (ancora troppo poche e che comunque riguardano la sola Unione europea), per lo meno rispetto ai trattamenti minimi che riguardano i diritti sociali fondamentali previsti dalla Carta dei diritti fondamentali della Ue e dalla Carta sociale europea. Ma questo oggi rimane un discorso di prospettiva, in sé non alla portata della pur impegnata azione delle Corti nazionali e sovranazionali.